sarajevo:ritorno:verità parziali

Una volta, parecchi anni fa, ho scritto questa cosa qui, pensando che l’avrei tenuta da parte e che l’avrei pubblicata il giorno in cui avessi lasciato Sarajevo. L’ho tenuta salvata nelle bozze fino ad ora.

Rapid sensations and matches boxes #2 - di Robert O' Donnell

Rapid sensations and matches boxes #2 – fotografia di Robert O’ Donnell

La prima volta che partii per Sarajevo con l’idea di restarci le chiuse erano aperte. Durante le nostre nottate si sentiva l’acqua venir giù dalla diga, tutto il tempo. Durò una diecina di giorni, ininterrottamente. L’effetto era straniante. Il monarca diceva scherzando che era quasi un mantra buddista ma secondo me aveva ragione. L’idea era di rigenerarsi nell’annullamento e la cosa, dopo la settima o l’ottava birra scura, funzionava. La sera prima della partenza fissai al cruscotto un dinosauro di plastica che mi aveva regalato la mia ragazza. Lo posizionai in modo che sembrasse ammiccare al contachilometri. È ancora lì.

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Mi è capitata una cosa strana tornando a casa lo scorso aprile. Per la prima volta in più di due anni mi sentivo stanco dei luoghi. Ho lasciato i soldi per l’affitto alla mia coinquilina perché dentro di me ero sicuro che sarei rimasto con la mia famiglia più di un mese. Uno, se di mestiere tenta di raccontare, finisce per sviluppare una certa empatia. Non tanto per questa o quella persona o per questa o quella fazione, né per la città, ché noi la categoria dei Sarajevo-ljubavi-moja, Sarajevo mon amour, quelli che vengono qui armati di Rumiz e Andrić (o peggio) li abbiamo sempre sfottuti, abbastanza apertamente, e con buona ragione. No, l’empatia è piuttosto l’empatia per le contraddizioni. Tutte insieme. L’equilibrio che si crea. Alla fine ti divora, se ci metti anche solo il minimo sindacale di passione. Ogni tanto forse devi semplicemente staccartene e farci pace. Ci sono volute delle settimane, questa volta, ma alla fine i luoghi hanno ripreso a mancarmi. È come se qualcosa fosse tornato al proprio posto.

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La verità, se volete sapere la mia, è che quando hanno distribuito le nazioni del mondo e a me è toccata la Bosnia Erzegovina, ecco, io l’ho scelta volentieri. Perché dopo tanto tempo passato a cercare di tirar fuori, abbastanza pateticamente del resto, le mie magagne interiori, i miei discutibili sforzi artistici, e quel poco di bello che c’era e che avevo da offrire trovavo incredibilmente riposante l’idea di venire qui, e parlare dei problemi di un luogo come se fossero i miei problemi. Nell’insieme cambiava poco, praticamente non cambiava alcunché. In più, c’erano le storie, e con un po’ di fortuna le persone che sarebbero state interessate ad ascoltarle.

Se questo fosse un film, se mi fossi inventato un posto tutto mio, e se un domani dovessi scoprire che era tutto finto, che sull’atlante non c’è non c’è mai stata nessuna Sarajevo, non mi stupirei più di tanto. A partire dal nome, ‘Sarajevo’ è una cosa che avrei potuto creare io. Per il suono quasi femminile e per quella strana compresenza di sillabe, che in italiano ricordano il futuro e un imperfetto, come dire avevo nel futuro, un gioco a perdere già deciso. Perché se due, tre, dieci anni fa mi avessero messo di fronte a un foglio bianco, chiedendomi di tirare fuori dal nulla me stesso, fossi stato Dio, per dirla alla Gaber, in fondo il risultato della mia creazione sarebbe stato molto simile a quello che io credo sia la Bosnia Erzegovina. Un posto di terra, tanta terra. Montagna, per lo più. Con un solo corridoio al mare. Una via d’uscita remota, lontanissima, che praticamente è un’ipotesi. C’è – non c’è – c’è finché ce la lasciano.

Un mostro che funziona ad alcol e carbone, che tra vent’anni è meglio non pensarci nemmeno, in cui tutto o buona parte del tutto è irreparabilmente rotto, o semplicemente laido, kitsch, volgare, e si accontenta di rimanere così dove sta, senza funzionare; ma dove, a dispetto di ogni previsione e ogni scommessa contraria, ognuno resiste come può in un equilibrio più o meno disperante, concentrandosi su quel poco che c’è di veramente bello, nella propria felicità istantanea, e nello sforzo di farla durare qualche secondo in più rispetto a quanto altri hanno stabilito. ( E alla fine è questa, la vera convivenza di Sarajevo, non quella che vi hanno sempre spacciato di religioni e popoli. È la coesistenza, l’integrazione di molteplici felicità e infelicità personali tutte insieme. A volte mischiate così bene che nemmeno sai distinguere le une dalle altre).