“ASTRAZENICA”

di Rodolfo Toè

L’infermiera indossa dei calzini di spugna con sopra stilizzato un virus verde. Il virus è barrato da un cerchio rosso, a mò di divieto, e sotto c’è scritto: CORONA. “Sì i calzini sono divertenti, ma devo tenerli un po’ coperti coi pantaloni”, dice, e così facendo alza un po’ gli orli alle caviglie. Mostra la frase intera. Che è, in effetti: FUCK CORONA. Forse il messaggio non è troppo adatto a un impiegato pubblico, per quanto lei sia molto giovane – tutti gli infermieri, qui, sono molto giovani. Tuttavia, dopo un anno di pandemia, riesco solo a pensare: sintesi ammirabile.

foto: Dalia Beretta.

Alla fiera di Belgrado sono circa le undici del mattino di domenica 28 marzo. Siamo in quattro. Abbiamo viaggiato fin qui da Sarajevo con la speranza di ottenere la nostra prima dose del vaccino Astra Zeneca. Tra le due capitali la distanza è di circa trecento chilometri. Nei Balcani però i chilometri non significano nulla: la distanza, qui, bisogna misurarla in ore. Da Sarajevo a Belgrado ce ne vogliono circa sei, in macchina, percorrendo strade che prima attraversano le montagne della Romanija e, una volta in Serbia, si infilano tra città e villaggi. Occorre districarsi tra trattori, bus, a volte carri trainati a cavallo. Sei ore. È come se da Milano pigliaste l’auto per andare a Roma e farvi una dose di vaccino. Lo fareste? Soprattutto: voi lo fareste senza essere assolutamente certi di riuscire nella vostra impresa?

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Le cose sono andate così: a marzo, il governo serbo si è ritrovato con migliaia di vaccini in eccesso. La campagna vaccinale in Serbia è andata bene, all’inizio; dopo poco, però, si è arenata. Nell’insieme, i Serbi sono tradizionalmente scettici sull’efficacia dei vaccini, e le perplessità dell’Unione Europea su Astra Zeneca hanno fatto il resto. A Belgrado restavano in particolare circa 20.000 dosi di Astra Zeneca in scadenza a inizio aprile. Per non sprecarle la Serbia ha quindi deciso di fare una cosa che, messa in prospettiva con quello che sta succedendo a livello mondiale, sembra incredibile: porte aperte. Vaccini per tutti, anche per gli stranieri.

Allo stesso tempo, la Bosnia Erzegovina ha ottenuto ad oggi solamente circa 100.000 dosi di vaccini, che saranno utilizzate soprattutto per proteggere dottori e infermieri. Per tutti gli altri non c’è ancora nessuna strategia, non esiste un piano. In molti anzi si chiedono se un piano sia in effetti realizzabile, visto che il Paese non dispone a oggi nemmeno di una chiara fotografia statistica della propria popolazione, nonostante il censimento più o meno recente, fatto nel 2013. Il fatto che migliaia di Bosniaci abbiano deciso di affrontare il viaggio fino a Belgrado pur di farsi vaccinare la dice molto lunga sulla loro frustrazione.

Tra noialtri italiani di Bosnia Erzegovina, il vaccino Astra Zeneca è stato fin dal primo momento ribattezzato “Astra Zenica”, in onore di una cittadina che sta qualche decina di chilometri a nord di Sarajevo. Zenica è un centro industriale che soffre di problemi endemici di inquinamento a causa della sua acciaieria. È un posto un po’ tristarello. A noi l’idea di un vaccino “Astra Zenica” fa un sacco ridere, perdonateci lo spirito da preti: è un po’ come se questo nome trasmettesse l’idea di una grande speranza raffazzonata un po’ alla cazzo di cane, e in generale è esattamente così che ci sentiamo.

Sirotinja

Ci mettiamo in macchina alle cinque del mattino di domenica, in una levataccia funestata ulteriormente dal passaggio all’ora legale. Saremmo partiti anche prima, ma a Sarajevo è in vigore il coprifuoco – per evitare assembramenti, dalle nove di sera alle cinque di mattina non si può andare in giro. Il nostro piano è semplice: arriviamo a Belgrado, ci vacciniamo, e poi via – si ritorna subito a casa, perché domani è lunedì e si lavora. In tutto sono quattordici ore di viaggio. Facciamo appena in tempo a uscire dalla città, e ci accorgiamo che ovviamente non siamo gli unici ad avere avuto questa idea. Insieme a noi si muove già una piccola carovana di una dozzina di macchine.

C’è una parte di me – la parte più cinica, disincantata, immatura di me – che non può fare a meno di pensare all’ironia di questa situazione. Eccola qui, mi dico, la sirotinja vera – un termine bosniaco che significa di fatto “povertà” ma che ha un connotato quasi morale e molto più umiliante – la presa per il culo di essere disposti a passare una giornata intera in macchina per un vaccino che in Europa, a un certo punto, hanno persino smesso di somministrare. Un vaccino “di serie B”.

E tuttavia le capisco, le ragioni di questo esodo. Le capirebbero tutti. In questo momento la Bosnia Erzegovina registra circa 2.000 nuovi casi di COVID al giorno – il valore più elevato dall’inizio della pandemia. Gli ospedali rischiano il collasso. Le pompe funebri locali fanno fatica a gestire la richiesta di funerali. Queste persone disperate, che sono in viaggio verso Belgrado, hanno tutte probabilmente perso chi un parente, chi un amico cui erano affezionate; oppure hanno un lavoro a rischio per il quale non sono protette; sicuramente hanno tutte paura e, in generale, si sentono tutte abbandonate a loro stesse.

In più, e questo io lo sento fin da subito, fin da quando giovedì mi hanno scritto un messaggio su whatsapp per dirmi: “guarda che a Belgrado ci si può vaccinare”, c’è un motivo psicologico, intimo, che forse è la vera ragione per cui tutti noi siamo in viaggio. Per la prima volta, dopo un anno d’impotenza orribile, in cui ci hanno detto di aspettare, di stare fermi, di portare pazienza, che ne siamo quasi fuori, perché ancora due settimane, ancora un mese, ancora una primavera, finalmente qualcuno ci ha detto che possiamo fare qualcosa. Che andando a Belgrado finalmente possiamo prendere una decisione sul nostro futuro. Una decisione concreta. Questo stiamo facendo: noi stiamo andando a Belgrado per ritornare soggetti delle nostre azioni. Per reclamare le nostre vite.

Ah, le dolci albe in Romanija.

La Romanija è una regione montuosa a nord-est di Sarajevo, un luogo che riesce a essere al tempo stesso bellissimo e di una tristezza desolante. C’è ancora parecchia neve. Viaggiamo lentamente, nella nebbia. A un certo punto, per poco non ci schiantiamo contro un cavallo che se ne sta così, in mezzo alla strada, perfettamente tranquillo. Non guido, fortunatamente, e quindi posso concedermi il lusso di schiacciare un pisolino di una mezz’oretta. Mi sveglio a Milići, una piccola cittadina trenta chilometri a sud di Zvornik, perché ho un improvviso bisogno di vomitare. Madonna che stronzata che abbiamo fatto, mi dico: tutta questa follia per un vaccino che non vedremo mai.

Un girone dantesco

Lunedì 29 marzo, a bocce ferme, la Serbia ha annunciato ufficialmente di avere vaccinato, in tutto, circa 22.000 stranieri. La maggior parte di loro è andata a Belgrado nella giornata di sabato, approfittando del primo giorno del fine settimana, mentre noi ancora stavamo decidendo sul da farsi.

Bastava presentarsi al padiglione numero 3 della fiera di Belgrado, anche senza appuntamento: una libertà assurda, sconvolgente, rispetto alla situazione nella maggior parte dei paesi europei. Intendiamoci, non è stata una scelta esente da critiche. L’associazione “Uniti contro il COVID” (che mette insieme medici serbi critici nei confronti del governo), per esempio, ha criticato le autorità per avere permesso a migliaia di stranieri di entrare nel paese senza nemmeno l’obbligo di presentare un test PCR negativo.

Nella giornata di sabato, in 9.600 si sono presentati per farsi vaccinare. Degli amici che erano sul posto hanno definito la situazione come “un girone dantesco”, suggerendo che in fondo fosse meglio lasciare perdere. I giornali di Sarajevo hanno descritto code chilometriche alle dogane, e persone che giunte al padiglione sono rimaste in attesa anche quattro ore prima di ottenere l’iniezione.

Prefigurandoci in anticipo la bolgia del sabato, abbiamo fatto una scommessa rischiosa: aspettare domenica, con le dita incrociate, sperando che i vaccini non finissero nel frattempo. Sabato pomeriggio però arriva una notizia che demolisce le nostre speranze. Mihajlo Jovanović, il direttore di e-uprava (un portale online dell’amministrazione pubblica serba), dice che soltanto le persone che si sono registrate sul sito e a cui è stato confermato un orario potranno presentarsi domenica. Lo scopo è proprio evitare che scene come quella di sabato si ripetano.

Noi ci siamo registrati, ma non ci ha risposto nessuno per confermarci l’appuntamento, e la frase di Jovanović sembra a tutti gli effetti l’ultimo chiodo sulla bara delle nostre già esili speranze. Rimaniamo un po’ rattristati, chiedendoci stancamente cosa fare. Ma la domanda sembra retorica. Le nostre possibilità sono virtualmente inesistenti, conviene rassegnarci. Bisogna, di nuovo, rimettersi ad aspettare. 

È a questo punto che stranamente ci ribelliamo a noi stessi, e il primo a stupirsene sono io, che pure sono sempre stato un tipo calcolabile, prevedibile, passivo. Sai che c’è? No, io non resto un’altra domenica seduto sul divano a guardare serie Netflix che, diciamolo, mi fanno pure tutte schifo. No, io stavolta vado a Belgrado. Vado a Belgrado, cazzo: io vado a Belgrado.

Domenica mattina le dogane sono piuttosto vuote. Entriamo in Serbia, dove la strada arranca tra le città di Loznica e Šabac. Bar e ristoranti sono tutti chiusi, ma la maggioranza della gente per strada non porta mascherine. Cerco il quaderno che ho nella borsa. Vorrei prendere qualche appunto ma mi accorgo che il gel disinfettante, che ormai porto sempre con me, si è aperto. Il tappo ha ceduto durante il viaggio. Il mio quaderno è completamente inutilizzabile, e non è nemmeno la prima volta che mi succede, da quando è iniziata la pandemia. Questo è diventata la nostra vita: l’ossessione per piccole cose paranoiche che ormai ci hanno consumato. Lascio perdere il quaderno e penso che non ne posso più. Davvero, non ne posso più.

Jugovaccini!

Domenica, il parcheggio del padiglione 3 è pieno di macchine bosniache e macedoni. La maggior parte appartiene a circa 1.500 imprenditori e lavoratori della regione, venuti qui su invito della Camera di Commercio della Serbia. La ricerca di un parcheggio, gli addetti alla sicurezza con il giubbotto catarifrangente, le indicazioni, i cartelli. So cosa mi ricorda tutto questo: è un concerto, è proprio come andare a un concerto, che mestizia.

“Ci siamo registrati ma non abbiamo ancora ricevuto la risposta”, dico alle infermiere che dirigono lo smistamento. È il momento della verità. Anticipando la nostra disfatta, aspettiamo le prime sillabe della sua risposta, che però sono: “nema veze”, “non fa niente, non importa: oggi però potete soltanto vaccinarvi con Astra Zeneca”. Lo dice proprio così: potete soltanto vaccinarvi con Astra Zeneca. Come se si scusasse, perché all’inizio, tenetevi forte, gli stranieri potevano anche scegliere quale vaccino usare. Adesso, però, occorre finire il lotto prima che scada. Per noi, e per le decine di bosniaci che sono lì in fila con noi in quel momento, la cosa non ha la minima importanza.

Cabine per la vaccinazione al padiglione numero 3. Foto: Dalia Beretta.

Riceviamo, finalmente, il vaccino. Non abbiamo nemmeno dovuto aspettare. Siamo letteralmente scesi dalla macchina e ci siamo vaccinati. Ci ricontatteranno via mail per il richiamo, dicono. Non riusciamo a crederci. Abbiamo accettato un azzardo che ci sembrava impossibile e nonostante tutto sembrasse contro, almeno stavolta abbiamo vinto noi, eccoci qui. “State bene?”, mi chiede l’infermiera mentre mi rivesto dopo l’iniezione. “Non soltanto sto bene, sto meglio”, le dico, prima di augurarle una buona giornata. “Ecco, così va bene”, mi risponde lei, sorridendomi.

Per retorico che sia, io penso che un giorno agli infermieri del COVID dedicheremo monumenti e vie anche nel paesino più piccolo, come si è fatto coi fanti della prima guerra mondiale, e se dopo tutto non faremo nemmeno questo sarà davvero una gran porcata, non saprei come altro definirla.

All’interno del padiglione hanno allestito anche una sala d’attesa piuttosto ampia in cui trascorrere un quarto d’ora dopo il vaccino, ed è piena di persone che si sentono tutte più o meno come noi. Cioè come chi, dopo una attesa durata mesi, abbia finalmente ricevuto una prima buona notizia. Sono distesi, scherzano, sorridono, si fanno selfie. C’è qualcosa, in quell’atmosfera rilassata e calma, di felicità semplice e realizzata, che mi ricorda come ci si sente nell’ala degli arrivi di un aeroporto.

Avete mai visto qualcuno essere triste agli arrivi di un aeroporto?

Nella sala d’attesa ci sono anche due quaderni in cui lasciare dediche e ringraziamenti. La coppia vicino a me ne sta scrivendo una: l’uomo disegna un grande cuore e sotto scrive. Grazie. Da Sarajevo. Poi si firma: Aco.

Leggo i messaggi lasciati da centinaia di persone che sono passate prima di noi. Molti i ringraziamenti, dalla Macedonia del Nord, dal Montenegro, ma soprattutto dalla Bosnia Erzegovina. È una “piccola Jugoslavija” del COVID, se vogliamo. Al netto delle nostre mature, e ciniche, considerazioni sulla politica internazionale, è una cosa che riesce ancora a commuovermi, almeno un po’. Una cosa buona resta una cosa buona, mi dico: e questa è una cosa buona, e cercherò di non dimenticarmela.

Dalla fiera guardiamo il profilo di Nuova Belgrado. Sarebbe bello fare un giro a piedi, io non torno a Belgrado dal 2018, ma non c’è tempo. Occorre rientrare prima che faccia buio, prima che a Sarajevo scatti il coprifuoco, prima che i possibili sintomi del vaccino si manifestino (e si manifesteranno). Rientriamo, quindi. Lungo l’autostrada serba, le stazioni di servizio sono piene di bosniaci che, anche loro, ritornano a casa. Come noi, hanno tutti grandi borse piene di panini perché immaginavano di dover passare ore e ore in coda alla fiera di Belgrado. Avanzeranno, se li mangeranno il giorno dopo, che finalmente è domani. Una coppia ha pure portato con sé la bambina piccola, avrà quattro o cinque anni, e adesso lei si è arrampicata su una giostra che a dire il vero sarebbe chiusa. Hanno messo del nastro rosso e un cartello: “cari genitori, questo gioco è momentaneamente non accessibile a causa dell’emergenza covid”. I bosniaci, però, ora come ora se ne fregano.

Se ne fregano.